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Paleodictyon

C’è qualcosa che scava da cinquecento milioni di anni sul fondo dell’oceano. Ne conosciamo le tracce singolari: reticoli di gallerie bidimensionali, a maglia esagonale, piatti. Da ognuna di queste gallerie esagonali partono dei piccoli tubi verticali verso l’alto, che sbucano sulla superficie e lasciano passare l’acqua.

Questo è tutto quello che sappiamo.

Paleodictyon esiste dai tempi del Cambriano. I suoi fossili -inequivocabili bassorilievi esagonali sulla roccia, grandi fino a un metro quadrato- non sono particolarmente esotici: sono familiari in quasi tutti i sedimenti pietrificati dei fondi oceanici. Come ha fatto notare Andrea Baucon, uno dei primi ad accorgersene fu -forse- Leonardo da Vinci. In una pagina del Codice Leicester infatti, in mezzo a schizzi di conchiglie fossili dell’Appennino fiorentino, ha tracciato anche un piccolo reticolo esagonale, come un pezzo di favo. A meno che Leonardo non volesse scherzare con i suoi futuri interpreti, infilando esagoni senza motivo in mezzo a una collezione di fossili, è probabile che il suo disegno rappresenti un fossile di Paleodictyon. Potrebbe anche (ma è improbabile) averlo infilato di soppiatto nei suoi quadri.

Ufficialmente, comunque, Paleodictyon è stato scoperto nel 1850 da un naturalista italiano, Giuseppe Giovanni Meneghini (spesso citato scorrettamente nella letteratura scientifica come “Menghini”), rovistando nella collezione di fossili del marchese fiorentino Carlo Strozzi. Meneghini descriverà la traccia esagonale proprio all’interno di una nota geologica sulla Toscana: Osservazioni stratigrafiche e paleontologiche concernenti la geologia della Toscana e dei paesi limitrofi. Ma tanto rimase per più di un secolo. Paleodictyon era una curiosità paleontologica, poco altro.

Nel 1976 però qualcosa salta all’occhio del geofisico marino Peter A. Rona, guardando una serie di foto scattate sul fondo dell’Atlantico:migliaia di chiazze di buchi sottili e fitti nella sabbia fine, disposti regolarmente secondo una griglia esagonale. Cosa fossero, Rona non lo sapeva: pensò a tutto, da una burla dei suoi colleghi, a impronte lasciate da tecnologie extraterrestri. Chiese ai suoi colleghi oceanografi, che rimasero basiti quanto lui. Fu invece il paleontologo Adolf Seilacher ad accorgersi che quelle griglie erano esemplari di Paleodictyon: ma non irrigiditi nella roccia, bensì impronte fresche, scavate nel fondale morbido sotto chilometri di acqua buia. Paleodictyon, qualsiasi cosa sia, è vivo, ed è il più antico fossile vivente: un organismo praticamente immutato da cinquecento milioni di anni.

Disegni e foto di Paleodictyon sul fondo oceanico, effettuate nel 1976.

Da quel momento è iniziata la caccia. Dal 1976 Peter Rona e colleghi si inabissano sul fondo dell’oceano. Dal 1976 anni scattano foto, catturano campioni, soffiano sulla sabbia del fondale per rivelare ancora una volta l’antichisso reticolo di gallerie esagonali. Hanno perfino fatto un documentario sulla loro ricerca incessante.

Dal 1976 non trovano niente.

Paleodiction - blowing away galleries
Soffiando via lo strato superficiale della griglia di fori di Paleodictyon, sul fondo marino, compaiono le gallerie esagonali, identiche a quelle fossili.

Quando Rona e colleghi analizzano i campioni delle gallerie, questi sono vuoti. La sabbia è deserta. Qualsiasi cosa abbia creato quei piccoli mandala sul fondo dell’Atlantico, a quasi 4000 metri di profondità, ogni volta non è più lì. Nessuna traccia non solo di un organismo vivo, ma neanche resti di cellule o DNA.

Cosa sono le gallerie di Paleodictyon? Alcuni pensano che si tratti dell’impronta lasciata da (relativamente) enormi esseri unicellulari, che effettivamente vivono sul fondo degli oceani, gli Xenophyophora. Tra di loro ci sono gli organismi unicellulari più grandi del pianeta, fragilissime immani “amebe” grandi fino a 20 cm di diametro. Gromia spherica, organismo di una singola cellula del diametro di tre centimetri, è stata scoperta essere la causa di una traccia fossile altrettanto enigmatica. Ma le tracce di Gromia sono scie irregolari, dovute al rotolare passivo dell’organismo sul sedimento. Le gallerie regolari, infallibilmente geometriche di Paleodictyon implicano qualcosa di più: un comportamento, o uno schema corporeo complesso.

Seilacher ha pensato che quella di Paleodictyon sia la più antica forma di coltivazione della Terra. Le gallerie avrebbero fornito un ambiente protetto per batteri o funghi, di cui poi l’enigmatico organismo si potrebbe nutrire. In alternativa potrebbe trattarsi di una trappola, in cui il plancton trascinato dalle correnti entrerebbe nelle imboccature esposte all’esterno e rimarrebbe bloccato all’interno delle gallerie, permettendone tranquillamente il consumo. Alcuni test mostrano che la struttura di Paleodictyon, con il centro leggermente rialzato rispetto ai bordi, permetterebbe questo tipo di circolazione. Un altro paleontologo, Mark McMenamin, ha ipotizzato che si tratti di un nido, e che le gallerie siano lasciate dalle larve quando escono dall’uovo. Altri ancora ritengono che sia il corpo di una bizzarra spugna, e che le gallerie non siano altro che il calco in negativo lasciato dallo scheletro disintegrato: alcune spugne hanno in effetti una intelaiatura a reticolo esagonale, vagamente somigliante alle gallerie bidimensionali di Paleodictyon. Una cosa accomuna tutte queste teorie: non hanno nessuna prova. Non si trova nessuna particolare concentrazione di plancton nelle gallerie che confermi l’ipotesi della trappola o della coltivazione. Nessun uovo o larva è stato mai trovato. Nessuna spugna è mai stata trovata vicino o dentro un Paleodictyon.

I muti reticoli esagonali di Paleodictyon persistono dimenticati e incomprensibili, ignorati dal mondo se si esclude una manciata di paleontologi, biologi marini e l’ispirazione di alcuni artisti contemporanei. Noi e Paleodictyon condividiamo la Terra e non ci siamo mai toccati. Io voglio sapere: ma una parte di me spera, per pura e infantile perversione romantica, che questo non accada mai. Che dopo la scomparsa della nostra specie qualcosa continui a formare esagoni nella sabbia, senza essere mai stato conosciuto.

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