Quando visitai Ithaca, nello stato di New York, visitai un paesino di poche migliaia di anime, perso nelle colline, tra un immenso lago disabitato e la foresta alle spalle. Il prossimo centro degno di questo nome è a tre ore di automobile. Il paese si riduce a una mezza dozzina di strade ortogonali, popolate da casette in legno dall’aspetto serenamente fragile. La vera storia di Ithaca si trova nei fittissimi fossili di conchiglie devoniane che circondano le cascate, non nei libri degli uomini.
Jülich -almeno il doppio degli abitanti di Ithaca- è invece a pochi minuti di traffico da Colonia o Aquisgrana, nel cuore esatto dell’Europa occidentale, in una delle zone più abitate e ricche di storia del mondo. Quando Ithaca ancora era una selva di boschi e tribù indigene, Jülich era a capo di un ricco ducato, la cui guerra di successione avrebbe scatenato la Guerra dei Trent’Anni. Nel Cinquecento la sua fortezza impregnabile difendeva la valle del Rur, passaggio necessario per invadere il midollo grasso della Germania. Le sue strade vennero pianificate da un architetto italiano, Alessandro Pasqualini , secondo un progetto di utopia rinascimentale.
Ithaca ha un’anima. Jülich no.
L’anima di Jülich venne uccisa il 16 Novembre 1944, quando un bombardamento alleato distrusse circa il 98% di quello che era stato, fino alla notte, un placido ma adorabile borgo medioevale. Morì circa una persona su tre, ma questo sarebbe niente. Il vero orrore sarebbe stato la ricostruzione: la resurrezione di Jülich fu molto peggiore della sua morte. Jülich venne ricostruita, ma le fu proibito di restaurare ogni storia e bellezza. I resti della cattedrale che ingioiellava il centro vennero inglobati in una modesta, ottusa chiesetta, troppo timida pure per essere brutta. Delle due strade principali che tagliano il centro, una è diventata una minuscola passeggiata per negozi di quartiere; l’altra non ha neanche avuto questo onore: è una fastidiosa incombenza per le automobili che vi passano, o per gli studenti che si fermano alla rosticceria greca. Del passato restano solo due testimonianze: una è la fortezza, incastrata nel centro cittadino, e che la città intorno sembra voler evitare per timore di contaminarsi. L’altra è la porta cittadina che guarda verso Aquisgrana, nello stile tedesco: due torri tozze e grasse con il classico, comico tetto a cono. Ha il nome fiabesco di Hexenturm, porta delle streghe, ed è stranamente integrata con i dintorni. Infatti rabbuia correttamente una stradina in discesa che diventa rapidamente più insulsa avvicinandosi alla porta. Di là dalla porta stanno alcune case, un Burger King, grandi magazzini di materassi, e infine il fiume Rur. Jülich sta molto attenta a non avvicinarsi al Rur, figuriamoci farsene attraversare: questo potrebbe implicare una passeggiata, un lungofiume, un luogo urbano atto alla felicità umana. Si ferma piuttosto pochi metri prima, accertandosi di mantenere le rive incolte e selvagge, destino di sterpi e carrelli della spesa che arrugginiscono come carcasse di animali metallici. Di là dal fiume pare sia un parco: costoso, artificiale, vuoto.
Tornando indietro dalla Hexenturm si raggiunge una piazzetta pavimentata in mattonelle color legno chiaro. Il massimo che vi accade è un mercatino bisettimanale, dove vendono cibo troppo caro e troppo poco attraente. La piazzetta è circondata dal nulla: palazzetti a due-tre piani, negozi, bar italiani che sono rimasti indietro esteticamente di venticinque anni. La chiesa di cui sopra non osa dare sulla piazzetta, ingentilendola: si trova infatti poco più addietro, seminascosta, la facciata praticamente schiacciata contro una farmacia. Proseguendo infatti la si può vedere sulla destra, di sbieco dietro a una anonima fontanella. Ancora più avanti, sulla sinistra, dopo l’unica libreria e le onnipresenti farmacie, si trova il minuscolo parco, cuscinetto tra il centro cittadino e la fortezza. La collocazione del parco è strategica: in questo modo chiunque passi per il centro il sabato pomeriggio non è costretto a fare i conti con l’unico oggetto bello e antico rimasto in città, e può distrarsi con le vetrine grige dei negozi di scarpe, o sedere in una pasticceria dove dozzine e dozzine di vespe brulicano e masticano i dolci. Avanti si finisce nel nulla: quartieri residenziali messi insieme con imbarazzo, supermercati e, oltre, gli sterminati campi di colza.
In altri luoghi, come Dresda, che pure subì un destino simile, la ricostruzione fu sincera. Oggi il centro di Dresda vibra ancora dei sensi del Settecento – certo, poi stacca bizzarramente verso una periferia di impronta socialista, ma questo contribuisce a caricare il luogo di belle tensioni. Berlino ha saputo ricreare, sfruttando la sua tormentata storia invece di piegarvisi, una personalità unica al mondo. Monaco è una città solida e reale, con una cultura che la permea. In Westfalia – o in quello che ne ho visto – invece non accadde niente del genere.
In generale le città della Westfalia sembrano luoghi di penitenza. A Colonia e Düsseldorf è stato concesso di rialzarsi come alveari di uomini, come fatui nodi abitativi: ma niente che possa costruire una nobiltà, uno spirito umano è stato permesso. Düsseldorf si da arie americane: grattacieli di vetro, skylines futuribili sul Reno, ateliers chic. Sul lungo Reno si può perfino credere di essere ancora in una città vera. Cartapesta. Basta girare un angolo per trovarsi in mezzo ad autostrade deserte circondate da banche o, se va bene, in un quartierino residenziale perfettamente tenuto, anonimo e inutile, in una imitazione di plastica di serenità a cui nessuno può credere. Colonia invece non mantiene neanche questa vergogna della propria apocalisse. Colonia è una massa di centri commerciali schiacciata intorno a una cattedrale, che è tetra e fuori posto com’altre mai. Chiunque cammini per Colonia può pensare solo una cosa, ossessivamente: qui hanno distrutto tutto. L’architettura è rigida, brutale e fitta. Le chiese abbattute sono state ricostruite, ma colando cubico cemento sopra i pochi sassi delle rovine, per far sanguinare la ferita in eterno invece di nasconderla. A un parco hanno dato il nome di Hiroshima. Aquisgrana mantiene ancora una mappa medioevale e un certo pittoresco, ma in tono sommesso, quasi vergognandosene: sono chiaramente l’influenza belga e olandese che la mantengono vivibile. In tutti i casi, l’intenzione è chiara: ricordare in eterno al popolo tedesco cosa ha significato la propria hybris, vivendoci dentro come in un interminabile, ordinato purgatorio.
Ancora diverso, ancora più tetro è stato il destino di Jülich. Mentre le grandi città hanno potuto mantenere almeno il ricordo, tenendo aperte le proprie cicatrici, Jülich è stata posta in esilio dalla storia. Ogni traccia del tempo è stata sostituita con edifici anonimi, neutri, spuntati dal niente, come un normale sobborgo di periferia costruito in aperta campagna. Il laghetto al centro della città è piccolo e quadrato, ad accertarne l’artificialità. Le statue e le fontane sono di quel gusto stupidamente giocoso tipico dei tedeschi, prive di ogni riferimento storico e culturale. L’unica concessione alla storia è un minuscolo cippo, seminascosto nel parco, sul quale si vede un brutto bassorilievo che include dei bombardieri, una figura in tunica e lacrime (Cristo?) e la scritta “16 NOV. 1944”. C’era qualcosa prima di quel 16 Novembre? È un tabù ben custodito. La muta fortezza di pietra non lo smentisce affatto: sta lì, ci si gira intorno, pochi pedoni fanno passeggiare i cani nel suo fossato. Viene trattata non come un’opera dell’uomo ma come una fastidiosa formazione naturale. Al suo centro vi hanno costruito una scuola media: l’effetto non è dissimile da quello di una civiltà del remoto futuro che, ignorandone completamente il senso e lo scopo, edificasse un ufficio pensioni in mezzo al Colosseo.
Altre città sono giovani: ma consapevolmente tali, hanno potuto tentare di crearsi una leggenda, una storia, o quantomeno una parvenza di spirito. Che riescano o falliscano nel tentativo è altro discorso. A Jülich invece la storia è stata strappata via, e sostituita con un’anonima eternità. Ben più dignitoso, dopo il novembre del ’44, sarebbe stato seppellirla e lasciarne come lapide la fortezza circondata dai campi di colza. Ma evidentemente hanno pensato che il suo popolo, per generazioni, meritasse una sorte peggiore. I figli di Jülich vivono in un simulacro, il cui scopo è ricordare per sempre ai suoi abitanti che non hanno più diritto a nessun luogo.
Tesi interessante, ma troppo teleologica. In realtà non c’è un disegno di punizione divina, bensì gli effetti della concezione architettonica e urbanistica “razionale” tanto in voga nel primo dopoguerra. In questa concezione, gli edifici o addirittura le aree “ad uso misto” vengono ripudiate, con conseguente segregazione delle funzioni: area esclusivamente commerciale in centro, ghetti dormitorio suburbani, e enormi strade a unire il tutto. Dai agli urbanisti mano libera, ed avrai il lager perfetto (in realtà a Colonia solo attorno a Schildergasse e Hochstrasse, oltre il ring c’è il tessuto urbano ottocentesco ancora ben strutturato e vivibile). Perché solo in Westfalia (ma anche a Rotterdam, Francoforte, Coventry, oppure a città non toccate dalla guerra ma ristrutturate a forza, tipo Newcastle)? Perché storicamente è la regione più industrializzata, quindi aperta a teorie “moderne”. La Baviera, troppo conservatrice, non ha accettato l’architettura moderna nel centro storico.
In quanto a Berlino, ti stai sbagliando di grosso. L’intervento architettonico maggiore è avvenuto negli ultimi vent’anni, dopo il ripensamento delle idee funzionaliste del dopoguerra. Però se vai a vedere il “nucleo” dell’ ex-Berlino Ovest (originariamente in periferia del vero centro storico, in mano ai comunisti), il Kurfürstendamm e l’Europa Center, troverai un fottuto centro commerciale.
so benissimo che non c’è nessun disegno cosciente, pure mi pareva poetica la pareidolia: una congregazione di cause asettiche che genera un apparente contrappasso.
quanto a Berlino, sì, so che il Kurfürstendamm è quel che è (e vederci in mezzo il checkpoint fa rammarico e spavento), però Berlino è un posto in cui ci sono ancora mille momenti di meraviglia, e in cui si incastra *anche* quello. è come vedere un concentrato di storia, che include sia l’architettura di Postdamer Platz, sia i quartieri dell’est, sia la porta di Brandeburgo, eccetera.
Però fonte di lolz la schizofrenia del regime comunista che unisce in sé:
– Orrori in cemento armato (Fischerinsel, Karl-Marx-Forum a Berlino)
– Capolavori kitsch della propaganda (Karl-Marx-Allee)
– Leziose ricostruzioni di un passato ideale (Nikolaiviertel, il centro di Dresda)