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I problemi indivisibili – In risposta a Mariano Tomatis

Ha senso dire che una narrazione scientifica è politicamente neutrale? E se tale narrazione fosse possibile, sarebbe giusto farlo? Al riguardo è uscito la settimana scorsa un interessante articolo di Mariano Tomatis, ospitato da Giap, il blog dei Wu Ming.  Il problema sollevato da Tomatis -a sua volta ispirato da Andrea Ferrero del CICAP- è in parte reale, ma l’argomentazione che ne deriva è, in my humble opinion, almeno altrettanto problematica della situazione che dipinge.

(Nota: Quanto segue è un pippone immenso. È argomentato male, scritto peggio, ricco di ovvietà e approssimazioni. Più una raccolta di appunti che altro. Mi conforta solo -a livello puramente umano- che numerose delle mie argomentazioni sono state fatte, a volte con termini quasi identici, da altri nelle varie discussioni online. Comunque: probabilmente avete di meglio da fare. Se invece avete un’oretta da perdere su questioni capziose della comunicazione della scienza, leggete prima l’articolo di Tomatis e poi tornate qui)

I. Mondi giocattolo e mondi reali

Saturno immerso in acqua galleggerebbe, ma non possiamo immergere Saturno nell'acqua.

Tutto prende l’avvio da questo gedankenexperiment di Andrea Ferrero:

Supponiamo di vivere in una società autoritaria in cui una popolazione straniera viene tenuta in schiavitù e torturata per compiere esperimenti scientifici. Supponiamo che le associazioni umanitarie si oppongano alla tortura e che cerchino di fermarla con ogni mezzo, anche dicendo che quegli esperimenti non sono attendibili. Se gli scettici di quella società facessero “fact checking” dicendo che quegli esperimenti in realtà sono validi dal punto di vista scientifico, senza dire nient’altro, e le loro dichiarazioni venissero strumentalizzate dal governo per giustificare le torture, quegli scettici non avrebbero nessuna responsabilità?

Ah, bell’interrogativo: ma in realtà è una domanda diabolicamente fuorviante. Il giudizio etico sulla tortura di una popolazione umana è infatti pressochè totalmente condiviso dai lettori. Sarebbe quindi estremamente sospetto, nel toy world di Ferrero, scrivere un articolo sulla validità o meno di quegli esperimenti senza accennare alla loro mostruosità. Gli esperimenti nazisti sull’ipotermia, a Dachau, hanno forse generato delle conoscenze altrimenti molto difficili da ottenere su come trattare questa condizione, ma è quasi impossibile citarli senza citare anche l’orrore che generano.

Posta così, la domanda può anche alludere che tutto sommato sarebbe meglio se gli scettici se ne stessero proprio zitti, o anzi che supportassero la pseudoscienza umanitaria. Posizione in questo contesto artificiale del tutto comprensibile, ma scivolosissima se implica un’apologia della “menzogna a fin di bene”. Ora, va detto che Tomatis, Wu Ming e Ferrero rifiutano costantemente sdegnati questa lettura, dichiarando che il punto è cosa dire in aggiunta al mero fact checking. Sono convinto che lo sdegno sia in buona fede, ma l’implicazione sottintesa sopra è facile sentirla tra le righe dal testo. Negarlo è sciocco o in malafede, tanto quanto è in malafede pensare che sia l’unica lettura e che questo volessero effettivamente dire.

Cambiamo ora leggermente la domanda di Ferrero:

Supponiamo di vivere in una società in cui una specie diversa dalla nostra viene tenuta in schiavitù e torturata per compiere esperimenti scientifici. Supponiamo che le associazioni animaliste si oppongano alla tortura e che cerchino di fermarla con ogni mezzo, anche dicendo che quegli esperimenti non sono attendibili. Se gli scettici di quella società facessero “fact checking” dicendo che quegli esperimenti in realtà sono validi dal punto di vista scientifico, senza dire nient’altro, e le loro dichiarazioni venissero strumentalizzate dal governo per giustificare le torture, quegli scettici non avrebbero nessuna responsabilità?

Questo non è più un toy world o un esperimento mentale: questo è il nostro mondo. Stiamo infatti parlando della sperimentazione scientifica su animali, la cui base etica non è universalmente condivisa nella nostra società. Esiste infatti un movimento -filosoficamente del tutto legittimo e non trascurabile- che ritiene intrinsecamente terribile lo sfruttamento di animali da parte dell’uomo. E che cerca di screditarlo anche millantando che sia scientificamente inutile; viceversa esiste una larga parte d’opinione che ritiene sia eticamente giustificabile. Ho volutamente mantenuto l’espressione “tortura” nella domanda: molti lettori la troverebbero stridentemente faziosa; altri del tutto giustificata. In altre parole, la domanda di Ferrero non è più universalmente condivisibile. Esiste una tortura? Possiamo parlare di schiavitù quando parliamo di animali? Si può parlare di “strumentalizzazione” da parte del governo oppure si tratta della normale azione di un governo che tutela la ricerca scientifica e il bene della sua popolazione?

Abbiamo aggiunto un livello di complessità, che è il livello di complessità reale in cui agisce il fact checking e la divulgazione scientifica. È qui che Tomatis cade quando tenta il salto logico tra l’esperimento mentale di Ferrero (che, va detto, era inserito in altro contesto) e la divulgazione reale.

C’è un altro livello di complessità annidato nel precedente. Nell’esempio originario di Ferrero, il giudizio etico sulla tortura su esseri umani è, nella mente della quasi totalità dei lettori, pressochè sganciato dalla utilità degli esperimenti. Giustificare la tortura tramite una sua possibile utilità scientifica è considerato in gran parte deprecabile. Nel caso della sperimentazione animale (SA) è diverso – dati certi presupposti etici condivisi da molti, il giudizio sulla SA dipende, per molti di noi, dalla sua effettiva utilità scientifica e pratica. In questo caso quindi il fact checking non avviene necessariamente a posteriori, appoggiando o rifiutando una posizione etica pre-esistente: esso mi serve a priori, per informare la mia decisione etica o politica.

Il rapporto tra fatti scientifici e politica, in altre parole, non è biunivoco: Gli effetti di una esplosione atomica sono indipendenti dalla politica del suo utilizzo, ma una discussione politica sull’utilizzo della bomba atomica non può prescindere dai dati sulle conseguenze di essa (e.g. fallout, nuclear winter).

 

II. Divide et intellege

Il teorema dei quattro colori dice che bastano quattro colori per colorare una qualsiasi mappa senza che due regioni confinanti siano dello stesso colore. La sua dimostrazione è la somma delle dimostrazioni di 1936 casi individuali.

Da qui la necessità di una divulgazione e di un fact checking che si ponga come fondamento della opinione etica e politica. Quando Dario Bressanini e Beatrice Mautino (con cui polemizza Mariano Tomatis nel suo articolo) scrivono sugli organismi geneticamente modificati, non è (almeno nell’intento) per appoggiare una posizione politica su questo tema: è per dare gli strumenti al pubblico di costruirsi una coscienza su questi temi.

A questo Tomatis risponde che (1)non puoi parlare di qualcosa senza effettuare, anche per omissione, un atto politico e quindi schierarti (2)che l’autore dovrebbe comunque esplicitare il proprio sentire personale e politico -quindi i propri bias– invece di nascondersi dietro a una potenzialmente fasulla “oggettività”.

In entrambe le affermazioni c’è del vero, ma la questione non è semplice, di nuovo. A Tomatis sembra sfuggire che un aspetto chiave del metodo scientifico è quello di rimuovere i fattori di confusione. A tale scopo per esempio, quando si fa un esperimento, si cerca di studiare un parametro alla volta, tenendo costanti tutti gli altri. Oppure si studia un pezzo del sistema alla volta, e dopo si vede cosa succede quando questi interagiscono.

Per esempio, il “problema degli OGM” è un intrico di varie questioni. Identificandone alcune, non certo tutte:

a) la sicurezza o meno degli OGM per la salute umana

b) la sicurezza o meno degli OGM per gli ecosistemi

c) la valutazione etica dell’ “inquinamento genetico”

d) il comportamento delle aziende che producono OGM

e) il sistema di proprietà intellettuale che sottende queste aziende

f) l’asimmetria di forze tra coltivatori e aziende agricole

g) il sistema capitalistico tout court

Tutti questi problemi non sono sempre correlati in modo biunivoco. In particolare, il dato scientifico di (a) e (b) informa gli altri punti (e.g. il punto (d) varia a seconda della risposta al punto (a) – una stessa strategia di marketing può essere innocua o riprovevole, se è fatta per commercializzare alimenti tossici o benefici), ma non vale il viceversa: quanto si pensi sul punto (e) non cambia le conclusioni sul punto (a).

In questo senso i fatti scientifici sono indipendenti: non è necessario che siano parte di una narrazione unica. Divide et intellege: nel metodo scientifico, per affrontare un problema lo si divide in parti, e si trattano una per una. È ovviamente una approssimazione: nella migliore delle ipotesi restituisce una serie di tessere parziali da incollare assieme, nella peggiore le conclusioni mutano quando inizi a montare i pezzi tra loro . Ma, fatta la tara, funziona: l’alternativa è un roveto inestricabile in cui ogni analisi razionale è destinata a fallire. In questa filiera culturale di analisi, compito della divulgazione e del fact checking è quello di fornire la base di dati per le discussioni successive. Lo sforzo di “neutralità” – ovvero la tentata e desiderata omissione del dato sociale, politico etc. durante un fact checking scientifico non è quindi una posizione pilatesca: è uno strumento metodologico.

 

III. La guerra per le fondamenta

A Calvinball, vince chi si inventa le regole che vanno a suo vantaggio.

Sia chiaro: Ferrero e Tomatis intravedono un problema reale. Allo sforzo di analisi dovrebbe corrispondere, poi, un lavoro di sintesi. Ma è un mestiere altro da quello della “semplice” divulgazione/giornalismo. Se si volesse veramente affrontare la questione OGM servirebbe l’equivalente di una tavola rotonda dove innanzitutto vengono presentati i dati di fatto e.g. su sicurezza, ambiente, legge, storia dei sistemi economici associati etc. Assodati questi, dovrebbe partire la discussione politica. Ma abbiamo visto che il rapporto tra dati e politica non è biunivoco: la politica non influenza i dati, ma i dati informano la politica. Fino a quando non abbiamo un consenso sui dati, non possiamo costruire su essi. Se manca una sintesi condivisa, è spesso perchè mancano dati condivisi.

Ecco uno dei motivi essenziali per cui su molte questioni eminentemente scientifiche (gli OGM fanno male o no? il riscaldamento globale è opera dell’uomo? la sperimentazione animale è utile alla medicina?) -e quindi banalmente tecniche, in un certo senso- esiste invece una perenne battaglia ideologica: perchè spesso a seconda di quali sono i fatti facciamo derivare l’enorme parte della legittimità o meno di una posizione etica o politica. Del tipo: “Se la sperimentazione animale è scientificamente utile allora è eticamente legittima”. Che non è una deduzione necessaria, si basa infatti su assunzioni a monte sul valore della vita/sofferenza animale rispetto a quella umana. Ma date certe assunzioni, la deduzione è inevitabile: e se tali assunzioni sono condivise, chi non le condivide trova più facile cercar di modificare o negare i fatti piuttosto che le assunzioni filosofiche altrui.

I fatti sono il campo di battaglia decisivo: difendere i fatti diventa quindi una priorità. Sarebbe banale citare Orwell, ma il controllo politico parte quindi, effettivamente, dal controllo sui fatti. Ora, oggi non abbiamo un consenso generale su alcuni di questi fatti – o meglio, spesso la comunità scientifica ce l’ha, ma non l’opinione pubblica. Il che avvelena e frustra ogni tentativo di una ulteriore discussione sugli altri aspetti di problemi come quello della SA, o degli OGM.

(Diverso è, ovviamente, il discutere di questioni correlate ma indipendenti da quei fatti. Si può e si deve discutere della opportunità o meno dei brevetti -biotech e non-, per esempio, indipendentemente da cosa si pensi della sicurezza degli OGM. Ma anche qui, siamo ancora prima della (delle) sintesi sulla questione OGM in generale.)

 

IV. Potere e potenza

Scegliere una citazione di PK mi squalifica immediatamente, lo so.

Se i fatti sono alla base di scelte politiche e di posizioni etiche significa che, sì, essi di per sè sono neutri, ma non sono neutre le conseguenze dei fatti. Quei fatti -e la loro narrazione- sono quindi potenti. È qui la base della preoccupazione di Ferrero prima e Tomatis poi: non tanto un bias implicito nella narrazione, bensì il problema della sua potenza. Se la narrazione dei fatti è capace di tanto, va mitigata e bilanciata affinchè qualcuno non corra a trarne conclusioni indesiderabili.

O addirittura soppressa? Il problema è reale. Per esempio in gran parte del mondo occidentale è estremamente delicato (e per alcuni, specie negli USA, francamente inconcepibile) proporre oggi un qualsivoglia programma di ricerca sul rapporto tra sesso biologico e intelligenza, o fra etnicità e intelligenza. In questo caso i dati stessi rischiano, in linea di principio, di essere politicamente scorretti – un risultato che implicasse che donne o neri sono in media lievemente svantaggati -anche fosse comunicato con la massima cautela e i massimi distinguo, anche fosse statisticamente privo di qualsiasi conseguenza pratica- annichilirebbe de facto decenni di battaglie culturali antirazziste/antisessiste. C’è un motivo per cui dopo più di 150 anni stiamo ancora a parlare dei crani di Morton.

In contesti meno tabù, la surreale battuta di Stephen Colbert “Reality has a liberal bias” ha lo stesso significato. Molti republicans e libertarians americani sicuramente considerano di parte qualunque collezione di dati sul global warming: se il global warming è vero, infatti, è difficile pensare a una soluzione che non richieda tipi di regolamentazione a loro invisi.

La battaglia sui fatti è quindi anche una battaglia sul potere: generare basi di conoscenze (vere o fasulle) condivise implica modificare il mondo. In questo senso diventa problematico capire chi lavora a favore o contro il potere. È più potente la compagnia petrolifera o il consenso accademico sul global warming? È più potente Monsanto o Greenpeace? L’OMS o Jenny McCarthy? A livello economico la risposta è banale; a livello di leva culturale non lo è affatto (Il rapporto tra le due cose, infatti, non è lineare).

Il problema è che non è una battaglia culturale/etica/politica opinabile; chi lavora contro la realtà ha oggettivamente torto, per banale definizione di “torto”, e quindi chi lavora contro la realtà cerca di creare un potere dove non ha diritto a nessuno. Crea un potere pericoloso. Guidare ignorando la mappa, o sostituendo una mappa fittizia alla mappa reale, porta a schiantarsi contro i muri o a perdersi. Quando Tomatis si chiede se

Abbiamo davvero bisogno di poliziotti sul grigio confine tra Scienza e Mistero?

ci possiamo chiedere se questi “poliziotti” non siano effettivamente gli agenti che, invece, smascherano un potere pericoloso almeno quanto quello economico. Se una parte si colloca sistematicamente contro la realtà dei fatti nel portare avanti una battaglia politica, c’è da chiedersi quanto sia sensata quella battaglia politica, o perlomeno da chiedersi se chi la porta avanti faccia bene o male a quella causa.

 

IV. Fuggire dalla propria ombra

È possibile avere più ombre. A volte sono mortali, come ci insegna Doctor Who.

Bisogna anche ricordare che la persona adatta a fare fact checking sul lato scientifico di una questione complessa non è necessariamente -anzi, molto probabilmente non è quasi mai- la persona più adatta a discuterne aspetti etici e politici (di più alla fine su questo). Chiedendo al divulgatore scientifico di schierarsi gli si chiede fondamentalmente di uscire dal merito delle sue competenze. Beninteso, questo non significa che lo scienziato o il divulgatore non abbiano delle opinioni etiche e politiche – ma che queste non sono più o meno affidabili delle opinioni di una persona qualunque. (L’epidemiologo salviniano è, infatti, più probabile di quanto si pensi) In questo senso, il problema non è la neutralità della narrazione ma la sua qualità: si chiede al divulgatore di parlare con autorità di qualcosa su cui non ha questa autorità. Ferrero lo dice apertamente in effetti (corsivo mio):

la grossa differenza è che, una volta verificate le affermazioni e smascherate le bufale, il problema non si esaurisce, perché rimangono degli aspetti fondamentali ai quali non può rispondere la comunità scientifica.

Ma (aggiungo io) ai quali non puoi rispondere senza prima aver consultato la comunità scientifica.

Non abbiamo ancora affrontato le obiezioni sui bias e sulla loro espressione. Mi è difficile rispondere. Che i bias esistano e che questi influenzino la narrazione della scienza è pacifico – cercare di uscirne è un po’ come fuggire dalla propria ombra. In tal senso chiedere a chi scrive di esplicitarli/evitarli in toto è piuttosto utopistico: non puoi toglierti qualcosa che magari non sai nemmeno di avere, o che diventa un bias solo in un contesto culturale differente. In uno scritto che tenta di essere un’analisi scientifica, i bias si manifestano di norma come una questione di contrasto: si accreditano di più certi studi rispetto ad altri, si omettono contesti e paragoni, si danno per scontate conclusioni etc. Ma se i fact checking esistenti sono biased, l’unico modo in cui li si può contrastare è altro fact checking. La ricerca e condivisione della verità sono collettivi: chi scrive un articolo, un blog post, un libro scrive un pezzo di una storia più grande del suo autore. Così come scopo di certi scritti è di dare dei dati e non di inscriverli in un contesto, all’interno di una narrazione collettiva, scopo di altri scritti è quello di riaggiustare il tiro. È la norma di ogni dibattito culturale. Scrivere un pezzo che metta luce su bias politici nascosti nella narrazione degli OGM è giustissimo. Farne un problema generale della divulgazione un po’ meno intellettualmente onesto.

Ci sono poi posizioni etiche, politiche, umane di cui si è invece consapevoli, quel “brivido” di cui parla Tomatis: ha senso tirarlo fuori? Dipende: da cosa si vuole comunicare, da quanto quel “brivido” è eticamente condiviso, da perchè voglio comunicare qualcosa, da quanto è facile che quel “brivido” contamini le acque piuttosto del chiarirle. È una cosa troppo delicata per generalizzare. Come abbiamo visto discutendo dell’esempio di Ferrero e delle sue varianti, troppo difficile dare una regola generale. Ma vediamo adesso che in effetti neanche Tomatis vuole sempre sapere di questo brivido.

V. Un esempio sbagliato

 

Che ne sai tu di un campo di colza.

Brevemente. Per un buon terzo del suo post Tomatis lamenta come Bressanini abbia fatto debunking del caso di Schmeiser. Costui è il coltivatore che venne denunciato da Monsanto per aver piantato una sua semente senza permesso, e che si è difeso in modo piuttosto improbabile, venendo alla fine condannato.

Ora, Bressanini nel suo articolo fondamentalmente aggiunge un giudizio alla disamina dei fatti: il succo del suo commento è (molto grezzamente) “hanno fatto bene a condannarlo perchè ha violato una legge”, Tomatis pensa che però la legge sia fondamentalmente ingiusta (e che l’equazione “illegale=ingiusto” sia poliziesca/leguleia), e quindi simpatizza comunque per Schmeiser. Entrambe le opinioni sono legittime. Per la cronaca, io personalmente sono vicino a Tomatis: penso che Schmeiser abbia fatto benissimo a cercare di ripiantare i semi, e ritengo che la logica brevettuale sia un abominio. A me non piace che Monsanto denunci quel contadino, come non mi piace che si facciano cause legali contro chi scarica un film da un client BitTorrent, e di certo non mi piace l’equazione illegale=immorale. Ma questo non toglie che il modo in cui si è difeso fosse risibile. Schmeiser è uno che racconta balle: il fatto che le racconti essendo stato vittima di una struttura socialmente (a me) odiosa come la proprietà intellettuale non cambia minimamente il fatto. Il vero bersaglio di Bressanini non è però Schmeiser. Il bersaglio è chi, come Greenpeace, ha travisato il suo caso per creare un utile martire. Che magari martire sarebbe pure, ma non vittima degli OGM, quanto del sistema brevettuale. Che esiste con o senza gli OGM, anche in agricoltura.

Notare bene che la disamina di Bressanini è indipendente dal suo giudizio politico/morale sulla condotta di Schmeiser. Comunque la si pensi su costui, i fatti narrati (per quanto posso vedere) sono corretti e obiettivi.

Insomma, Tomatis semplicemente lamenta che Bressanini ha parlato di questo caso (non scientifico) mostrando il suo punto di vista: punto di vista che non lo trova d’accordo. Alla faccia dell’invocazione al palesare il nostro “brivido” personale: se lo si fa dalla “parte sbagliata”, questo diventi un problema! (Si veda di nuovo l’ipotetico epidemiologo leghista…) Niente a che vedere con la “falsa neutralità” del fact checking, quindi, ma semmai con la banale, esplicita non-neutralità del modo in cui una causa squisitamente politica viene commentata. In parole povere Tomatis e Bressanini non sono d’accordo sull’etica dei brevetti – succede e chissenefrega. Meno chissenefrega presentare un banale disaccordo come un caso clinico per mettere di mezzo la divulgazione scientifica e il fact checking come intrinsecamente incapaci di essere neutrali, solo perchè in un caso specifico uno non è stato neutrale nel commentare i fatti.

 

VI. Un problema reale

No, questa roba non funziona fuori dai fumetti.

A meno che non ci si riferisca a un problema più generale, ovvero il fatto che un certo tipo di posizioni scientificamente corrette siano associate a un certo tipo di politiche e attivismi discutibili e/o cialtroni; e che in generale si soffra di una cecità culturale da entrambe le parti dello scisma tra scienze naturali e scienze umane.

L’esempio chiave per me, in questo senso, è ancora quello della sperimentazione animale (SA). La controffensiva sul discorso SA, in Italia, nasce due-tre anni fa, grazie ad alcuni gruppi sui social network che sono effettivamente partiti con l’intento di fare fact checking e informazione corretta versus la pseudoscienza propagandata da associazioni come la LAV. Il dramma è che quasi subito la cosa è degenerata e oggi una larga parte del movimento pro-SA è quasi altrettanto imbarazzante della LAV o consimili. Entrambi infatti hanno la tendenza a mettere bocca su cose di cui non sanno: la LAV e compagnia di scienza biomedica, i pro-SA di filosofia e di etica. Le pagine Facebook dei gruppi pro-SA pullulano, per esempio, di patetici tentativi di “debunking filosofici” volti a delegittimare l’etica antispecista. È chiaro che in questo senso i pro-SA sono completamente fuori dall’ambito che a loro competerebbe (la verifica dei fatti).

Beninteso: se chiedete a me, sono a favore, personalmente, di una sperimentazione animale ben regolamentata (anche se ho sempre più remore negli esperimenti su grandi scimmie). Le associazioni pro-SA fanno anche un buon lavoro nello spiegare perchè scientificamente la sperimentazione animale è giustificata. Ma mi trovo oggi in serio imbarazzo, a chi mi chiedesse informazioni, a consigliare di rivolgersi a loro: verrebbero bombardati non solo da fatti ma da una ben precisa visione del mondo politica e soggettiva, peraltro infantile, ignorante e rudimentale, dove una ossessiva giustificazione di banali pregiudizi viene spacciata per oggettività.

Questo è un problema, ma non è un problema della logica della scienza o della sua narrazione, bensì un suo fallimento: vedere la sindrome di Dunning-Kruger nell’occhio altrui e non nella propria (una meta-Dunning-Kruger!).

Anche fuori dall’imbarazzante spettacolo descritto sopra, esiste in generale nel mondo dei “difensori della scienza” (non so come chiamarli), anche tra persone che si possono tranquillamente definire colte e intelligenti, una incapacità culturale a comprendere certe problematiche. Fino a un certo punto, è del tutto comprensibile. Tomatis parla di una

la sistematica demonizzazione del concetto di “attivismo”

da parte dei narratori di scienza, ma è una travisazione completa. Spesso quegli stessi narratori, in altri contesti, sono stati e sono “attivisti”. Quello che Tomatis percepisce è semplicemente l’effetto dell’avere una formazione scientifica e quindi dell’aver imparato a scindere i problemi nelle componenti, come abbiamo visto sopra. La “demonizzazione” -che demonizzazione non è, ma invito semmai a un certo tipo di rigore- salta fuori quando si mescolano piani che, per un’analisi, devono essere separati.

In questo tipo di forma mentis, è però facile scivolare poi nel rifiutare l’esistenza di certi problemi, o ritenerli intrinsecamente (e non temporaneamente) secondari. A forza di focalizzare un aspetto del problema, finiamo per non analizzarne altri, e quindi accettare supinamente lo status quo: E.g. sul post di Bressanini discusso sopra si potrebbe applicare questo schema: “non mi interessava analizzare il discorso politico legato ai brevetti –> non conosco il problema dei brevetti –> la opinione comune è che siano un bene –> la accetto e incorporo nella mia narrazione.” (nota bene: non so se lo schema sia reale. È probabile che l’opinione di Bressanini sulla politica e filosofia dei brevetti sia ben informata; quello che voglio dire è che questo schema potrebbe tranquillamente generare lo stesso identico post)

E questo è effettivamente lo schema della falsa neutralità che diventa destra – accettando lo status quo, lo si supporta, quindi si è intrinsecamente conservatori. Questo tipo di pitfall è ancora più probabile visto lo stato drammatico attuale del rapporto tra scienze naturali e discipline umanistiche in senso lato.  Sia pur con varie luminose eccezioni, chi fa scienza spesso ha conoscenze rudimentali di politica e filosofia, incluso chi vi scrive. E ancor più spesso oggi si sente autorizzato a ritenerle un orpello inutile; o addirittura a ritenerle discipline bambinesche in cui di sicuro può fare come e meglio di chi le pratica (È noto in un certo ambiente dei social network il caso tragicomico di un attivista pro-SA, studente universitario di scienze, che millantava di poter “confutare” filosofi a destra e manca. Lo facevo anche io: a 12 anni).  Da qui lo spettacolo desolante che si è sviluppato intorno al post di Tomatis e al thread dei commenti su Giap (thread che ho seguito assai poco, ammetto, ma che mi è sembrato in media di buon livello culturale), che sono stati a loro volta malamente derisi con un anti-intellettualismo imbarazzante e -quello sì- di destra, di destra brutta.

Dall’altro lato, però, persiste l’incapacità di comprendere quali siano i metodi, gli obiettivi e financo la psicologia di chi fa o comunque si occupa di scienza, agitando il fantasma di una volontà o viltà politica inesistente e arrivando a deliri come “oggi Le Scienze è di destra”. E in mezzo? In mezzo il vuoto. Quello di Mariano Tomatis è stato un tentativo goffo; in esso possono esserci stati anche dei pezzi di malafede e di misquoting (la cosa ha fatto infuriare, apparentemente, Mautino e Bressanini, che ne hanno approfittato in parte per smarcarsi dalla diatriba; ma in generale sono problemi loro e non mi riguarda). Ma ha avuto il pregio di poter creare di una discussione su come parlare di scienza. Tentativo non recepito. Non parlo di Tomatis, nè al limite di Bressanini/Mautino: ma della galassia di tifoseria attorno alle due parti, che con rare eccezioni bandiscono striscioni e non si parlano -ed è inevitabile, non sono in grado di parlarsi. Lingue diverse, logiche diverse. Due parti che non dovrebbero esistere, visto che in realtà entrambe vogliono la stessa cosa: cambiare il mondo tramite la verità. Ancora una volta tra le due culture sta il baratro, un baratro muto che ingoia ogni speranza di una cultura.

 

 

 

 

9 Comments

  1. 1) grazie, grazie, grazie

    2) riguardo quest’ultima frase:
    “Ancora una volta tra le due culture sta il baratro, un baratro muto che ingoia ogni speranza di una cultura.”
    è la logica conseguenza di tutto il discorso, ma prova un attimo a pensare alle soluzioni: un corso di biologia, matematica, fisica e chimica ai corsi di filosofia e letteratura e uno di lettere e filosofia moderna, arte e musica nei corsi scientifici? È ovvio che non si parli la stessa lingua: siamo impostati diversamente, per scopi diversi, siamo strumenti che servono per obiettivi diversi. Trovo estremamente complicato parlare anche solo con uno psicologo, se entro nei dettagli di quello che mi dice, perché il mio pensiero è sempre “voglio vedere il paper che dimostra quello che sta dicendo questo tizio”, così lui probabilmente, sentendomi parlare avrà pensieri analoghi nella “sua lingua”. Figuriamoci se parlassi con un filosofo o con un letterato. Chi approfondisce i numeri e lo spirito è raro, generalmente se ne sceglie uno, e anche prendendoli entrambi difficilmente avranno pari valore nel proprio modo di rapportarsi al mondo.
    IMHO.

  2. Voglio essere il primo a dirti che è un grande, grande pezzo. Complimenti.

  3. Grazie.
    Anche per la civiltà con cui esponi il tuo punto di vista.

    Il baratro tra le due culture, IMHO, sta anche nel fatto che vengano considerate due culture *distinte*, e che ancora, in Italia, il Vero Intellettuale sia solo quello con una cultura prevalentemente umanistica, che spesso si vanta di non capire nulla di matematica/scienza.
    All’altro estremo dello spettro ci sono i tecnologi duri e puri che l’unico libro che hanno letto è il manuale di Java.
    Un mondo in bianco e nero è facile da giudicare, peccato che la realtà non sia così semplice.
    Noi che stiamo in mezzo, che abbiamo una preparazione prevaletemente scientifica ma, sorpresa!, sappiamo e amiamo leggere, oppure chi si interessa di scienza e tecnologia pur avendo un background più classico, chi siamo, i figli di nessuno?
    Quel che mi spiace della discussione che è seguita al post di Tomatis è che noi, nella discussione, non troviamo spazio.
    E’ vero, come dice Giuliano in un altro commento, che è difficile parlarsi perché si parlano due linguaggi diversi.
    Però è anche vero che è un gesto di intelligenza rendersi conto dei limiti del proprio metodo e delle proprie conoscenze (da ambo le parti), e cercare di comprendere i limiti e le ragioni dell’altro. E, magari, trovare delle soluzioni insieme.
    Da scienziata sono molto spaventata dalla mancanza di cultura scientifica in Italia, a tutti i livelli. Da lettrice onnivora sono spaventata dalla faciloneria con cui si propongono soluzioni semplicistiche a problemi complessi.
    Non siamo qua per tirarci pesci in faccia, a fare chi ha ragione e chi ha torto. Il dialogo manca anche perché non ci si ascolta e si pretende di applicare i propri metodi ai problemi trattati dall’una o dall’altra fazione.
    Quel che sto leggendo in questi giorni mi sta facendo venire voglia di andare a cesellare le zolle.

  4. jackie.brown jackie.brown

    Anche a me è piaciuto il pezzo, sono arrivato tramite Giap (tra l’altro ho citato proprio un articolo di Giuliano Parpaglioni tra i commenti). E pure io ho pensato al caso della SA. Per quanto riguarda la riflessione finale ci sono i lavori di Fabrizio Benedetti che comincia proprio cercando di colmare il baratro, e forse non è un caso che tratti di Medicina narrativa.

  5. Giordano Giordano

    Con tutto il rispetto, il filosofo scettico Hume ha chiarito che l’etica è del tutto sganciata dai fatti. La vita degli animali è un valore, per cui può avere o non avere pregio. Non si può fattualizzare. Se si considera il benessere animale un valore, allora è barbaro sperimentale, se non è un valore allora è lecito. L’unica cosa che può generare consenso a proposito dei valori è la condivisione, e in quest’ottica forse conoscere il livello di sensibilità e di sofferenza degli animali potrebbe guidare nella scelta, che però è sempre etica e in quanto tale irrazionale, perché slegata dai fatti e legata ai valori, che sono immanenti e non metafisici. Non se ne esce.
    Che poi dire stupidaggini per sostenere scelte illogiche è una mossa da stregoni, ma la scelta è a monte e non a valle di questo discorso.

    • È esattamente quello che voglio dire. I fondamenti etici sono scorrelati dai fatti, ma le decisioni etiche su casi concreti no. Se un domani per assurdo potessi dimostrare che gli scimpanzè non soffrono e non sono minimamente autocoscienti, il parere etico mio e di molti altri sull’uso degli scimpanzè in esperimenti dolorosi cambierebbe parecchio.

  6. Oh cielo, avete fatto benissimo e chiedo scusa semmai per non averla linkata io. Grazie.

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